In Sardegna esiste ancora un ricordo vivo, profondo, che chiamiamo libertade e indipendenzia. Questo saggio racconta da dove nasce davvero: non da politica o ribellione moderna, ma da un’antica missione sacra. Una storia dimenticata di oracoli, eroi e resistenza spirituale, che ha reso il popolo barbaricino l’unico mai sottomesso, separato dal mondo per volere divino.
Per chi preferisce l’ascolto, ho creato anche un file audio in formato podcast con il riassunto completo dell’articolo. Puoi ascoltarlo mentre sei in viaggio, a lavoro o durante una pausa
Nell’antichità remota, molto prima della conquista romana, le montagne della Sardegna furono teatro di un evento che cambiò per sempre il destino dell’isola. Secondo quanto tramandato nel De Barbaricinorum origine e nella Naturalis et moralis historia de regno Sardiniae di Giovanni Arca, nonché negli scritti di Giovanni Francesco Fara, non fu un evento politico né militare a dare origine al popolo barbaricino, ma una missione divina ispirata dal dio Apollo, trasmessa all’eroe Eracle, e attuata dal suo fedele compagno Iolao.
Questo popolo non è frutto di migrazioni casuali o conquiste, ma di un progetto sacro, preordinato dalle potenze celesti.
Il racconto comincia a Delfi, il centro profetico del mondo greco, dove Eracle ricevette un oracolo da parte del dio Apollo. L’oracolo ordinava la fondazione di una colonia in un’isola a occidente, un luogo eletto per un popolo che non doveva essere più schiavo di nessun altro.
Era una chiamata alla libertà eterna.
Ecco le parole testuali tratte da Giovanni Arca nel De Barbaricinorum origine:
“Divinitus enim edictum fuisse refertur, ut Hercules, dux fortissimus, ex progenie sua colonos in Sardiniam mitteret, qui nulla unquam dominatione opprimerentur, sed liberi essent in perpetuum: eos enim Apollo ipse protegere promiserat, et in montibus remotissimis collocari iusserat.”
Traduzione: “Si tramanda infatti che per decreto divino, Eracle, valorosissimo condottiero, dovesse inviare in Sardegna dei coloni della sua stirpe, i quali non sarebbero mai stati oppressi da alcuna dominazione, ma sarebbero rimasti liberi in eterno: Apollo stesso promise di proteggerli, e ordinò che fossero stabiliti nei monti più remoti.”
Questa non è solo una fondazione etnica o storica: è una consacrazione. Un patto celeste lega le genti barbaricine a un dio immortale.
E il dio stabilisce non solo il destino ma anche il luogo: le montagne più remote, lontane dai centri di potere, inaccessibili a eserciti e imperi.
È qui che nasce il seme della libertà sacra.
Secondo Arca, il mandato divino fu eseguito non da Eracle direttamente, ma dal suo compagno Iolao, anch’egli semidio, figlio di Ificle, nipote quindi di Anfitrione. Iolao portava con sé la visione del dio, ed era incaricato di fondare la colonia secondo giustizia.
Nel De Barbaricinorum fortitudine, Arca precisa:
“Iolao, non secus atque alter Hercules, ducebat filios nobilium Graecorum, quorum stirps ab Hercule descenderet, et eos in montibus Sardiniae collocavit, ubi nec Romani postea nec ullus hostis eos potuit domare.”
Traduzione: “Iolao, come fosse un secondo Eracle, guidava i figli dei nobili Greci, la cui stirpe discendeva da Eracle, e li stabilì nei monti della Sardegna, dove né i Romani né alcun altro nemico poté mai domarli.”
È qui che nasce il nome Iolesi o Iolensi: popolo di Iolao, popolo scelto, popolo dei monti. La loro missione era vivere liberi, ma anche portare avanti la giustizia, l’ordine sacro e il rispetto per gli dei.
Le fonti ci dicono che le quattro regioni principali in cui si stanziarono furono:
Ollolai
Mandrolisai
Belvì
Seulo
Queste quattro regioni vengono citate come cuore originario del popolo barbaricino. Il passo del De Barbaricinorum origine che li nomina dice:
“In montibus Ollolai, Mandrolisai, Belvi et Seuli, prima fundamenta posuerunt Iolenses, nec ibi tantum habitaverunt sed etiam in aliis locis arduis et silvestribus.”
Traduzione: “Sui monti di Ollolai, Mandrolisai, Belvì e Seulo, i Iolensi posero le prime fondamenta; né abitarono soltanto lì, ma anche in altri luoghi impervi e boscosi.”
In questo punto lo stile di Arca si fa quasi liturgico.
Egli celebra queste località non come semplici villaggi, ma come centri sacri, veri e propri santuari della libertà.
Le genti che qui si stanziarono non si limitarono a vivere secondo le leggi degli uomini, ma in armonia con il volere divino, nella protezione del dio Apollo.
La visione che emerge è radicale: i Barbaricini non sono un popolo ribelle, ma consacrato. Non sono semplici montanari, ma sacerdoti armati della libertà, custodi di un patto con il dio del sole, della verità e della profezia.
Per comprendere appieno l’importanza di questo passaggio, occorre sottolineare che mai in nessun’altra parte del mondo antico un popolo venne presentato come direttamente protetto da Apollo con la promessa esplicita di libertà eterna. Questo rende il caso dei Barbaricini unico nella storia dell’umanità.
Non si tratta di una leggenda, ma di un giuramento sacro.
L’eco di questa missione viveva ancora secoli dopo, quando anche i Romani dovettero riconoscere che non avevano mai sottomesso i Barbaricini con la forza
Non ogni stirpe ha inizio da un dio, e ancora meno stirpi conservano il segno visibile e perpetuo di tale origine.
I Barbaricini, identificati nei testi antichi come Iolesi, Iliesi e Balari, discendono da una missione sacra guidata da Iolao, nipote di Anfitrione, figlio del fratello di Eracle, Ificle.
Ma Iolao non era solo un semplice esecutore del volere eroico: egli rappresentava una stirpe eletta, quella dei Tespiadi, i cinquanta figli di Eracle generati con le figlie di Tespio.
Secondo il passo del De Barbaricinorum origine:
“Hi omnes ex Hercule orti, fortissimi iuvenes, post mortem patris in diversas orbis partes missi sunt, ut nomen eius diffunderent, sed Iolao, carissimo nepotis loco habito, insula haec commissa est.”
Traduzione: “Tutti questi, nati da Eracle, giovani fortissimi, dopo la morte del padre furono mandati in varie parti del mondo, affinché ne diffondessero il nome, ma a Iolao, tenuto come un nipote carissimo, fu affidata quest’isola.”
La Sardegna, dunque, non fu assegnata a caso. Era destinata a Iolao, perché il legame tra lui ed Eracle era non solo di sangue, ma di virtù, fedeltà e spirito guerriero.
Questo rende i Barbaricini discendenti diretti degli eroi, portatori non solo di forza, ma di ordine e luce, poiché l’oracolo stesso venne da Apollo, dio della luce, della verità, della profezia.
Iolao non era da solo. Secondo il Naturalis et moralis historia di Giovanni Arca, con lui giunsero numerosi membri della stirpe degli Eraclidi e Tespiadi, formando una comunità strutturata e già ordinata:
“Iolao, cum L conte copioso iuniorum herculanorum, omnes generis sui, appulit in Sardiniam, non confusos homines sed quasi rem publicam perinde compositam.”
Traduzione: “Iolao, con una schiera numerosa di giovani eraclidi, tutti della sua stirpe, approdò in Sardegna non come un gruppo disordinato di uomini, ma come una comunità già strutturata, simile a una repubblica.”
Questa precisazione è cruciale. Non si tratta di una migrazione, ma di una fondazione civile e spirituale, voluta dal dio, guidata da un eroe, e realizzata da una stirpe degna.
Il nome Iolensi, da cui deriva il successivo etnico Barbaricini, non è quindi un’espressione geografica, ma un titolo dinastico-sacrale.
Come i Leviti nell’antico Israele, come i Brahmini in India, i discendenti di Iolao erano separati, benedetti, consacrati.
Una testimonianza forte ci viene ancora da Arca, che afferma:
“Non solum montes inhabitaverunt, sed etiam arcana Dei custodierunt; nam his promissum fuit non solum libertas terrena, sed etiam tutela divina, donec nomen Heraclis duraret in memoria.”
Traduzione: “Non solo abitarono i monti, ma custodirono anche i misteri di Dio; infatti a costoro fu promessa non solo la libertà terrena, ma anche la protezione divina, finché il nome di Eracle fosse rimasto nella memoria.”
Da questo passo emerge un elemento rarissimo nella storiografia antica: il carattere sacerdotale del popolo barbaricino.
Essi custodiscono i segreti di Dio, i misteri, e finché il nome di Eracle simbolo dell’ordine celeste rimane vivo, la tutela divina continuerà.
Non si può non notare il tono profetico, quasi biblico, di questa promessa.
È un’alleanza tra una stirpe e il cielo, basata non sulla fede, ma sulla discendenza, non su una legge scritta, ma su un giuramento divino.
L’attuale popolazione delle regioni interne sarde, in particolare della Barbagia, non è dunque semplicemente la “residua” di un’etnia montana: essa è l’incarnazione viva di un patto sacro, stabilito millenni fa e dimenticato dalla storiografia moderna.
L’oblio di questo fondamento spirituale ha trasformato il concetto di libertà barbaricina da sacra e divina a politica e sociale.
Ma come vedremo nei capitoli successivi, i testi antichi non parlano mai di una libertà “costituzionale” o “civile”, bensì di una libertas ex decreto Apollinis una libertà decretata dal dio stesso.
Nel prossimo capitolo vedremo come questa stirpe si è unita ai compagni di Enea e ha dato origine al nome Iliesi, ampliando e rafforzando ulteriormente il carattere sacro e mitologico del popolo barbaricino.
CAPITOLO III – ENEA E L’UNIONE TROIANA: GLI ILIENSI
La storia del popolo barbaricino non è solo una narrazione greca: è anche troiana.
La fusione tra le due stirpi, quella greca-eraclea e quella troiana-eneadica, avvenne in Sardegna, e rappresenta un evento unico nel Mediterraneo: l’unione tra due dei più grandi lignaggi mitici del mondo antico, in una terra consacrata alla libertà.
Secondo quanto riportato da Giovanni Arca, nel suo De Barbaricinorum origine, dopo l’arrivo di Iolao e dei suoi compagni, una seconda spedizione approdò sull’isola: quella dei seguaci di Enea, fuggiti da Troia.
Questi uomini non trovarono ostilità, ma accoglienza e fusione spirituale con gli Iolensi.
Arca scrive:
“Troiani, Enea duce, post cladem patriae, per diversas terras vagantes, etiam Sardiniam appulere, ubi, ab Iolensibus benigne accepti, pacem fecerunt, atque consociationem non modo sanguinis, sed et religionis coluerunt.”
Traduzione: “I Troiani, guidati da Enea, dopo la rovina della patria, vagando per varie terre, approdarono anche in Sardegna, dove, accolti con benevolenza dagli Iolensi, fecero pace e coltivarono un’unione non solo di sangue, ma anche di religione.”
Questa frase racchiude un concetto centrale: l’unione tra Iolensi e Troiani non fu solo etnica, ma sacra.
Le due stirpi avevano radici comuni nel mondo degli eroi e dei semidei.
Da questo incontro nacque il nome Iliesi (da Ilio, altro nome di Troia), a indicare la mescolanza tra i discendenti di Eracle e quelli di Enea.
Anche Giovanni Francesco Fara, nel suo De Chorographia Sardiniae, conferma questa origine, affermando:
“Ilienses a Troianis, qui post excidium patriae huc pervenerant, originem traxisse putantur; sed non solum Troiani, verum etiam Iolenses cum illis coniuncti, nomen hoc sumpsere.”
Traduzione: “Si ritiene che gli Iliesi abbiano tratto origine dai Troiani, giunti qui dopo la distruzione della patria; ma non solo i Troiani, anche gli Iolensi uniti a loro, assunsero questo nome.”
Il popolo degli Iliesi, dunque, è un nome collettivo per una stirpe che unisce l’eroismo greco con la sacralità troiana. Non è un’eccezione, ma una evoluzione della missione iniziata da Iolao.
Questa unione è visibile anche nel culto e nelle istituzioni. Arca ricorda infatti che:
“Ilienses in Foro Troiano templum extruxerunt Apollini, in quo utriusque gentis ritus celebrabantur, more vetusto.”
Traduzione: “Gli Iliesi nel Foro Troiano eressero un tempio ad Apollo, nel quale si celebravano i riti di entrambe le stirpi, secondo l’antico costume.”
Il Foro Troiano, quindi, non è una creazione romana, come alcuni storici moderni hanno pensato, ma un santuario arcaico, centro di culto e unità per le due stirpi divine.
Apollo, ancora una volta, è al centro della scena: il dio che ha ordinato la fondazione della colonia, è anche il garante della fusione.
Questa consacrazione dell’unione è ciò che distingue i Barbaricini da qualsiasi altro popolo.
Essi non solo discendono da una stirpe eletta, ma rappresentano l’incontro tra le due civiltà mitiche più grandi dell’antichità, fondendo in sé:
la forza giustiziera di Eracle
la resilienza sacra di Enea
Questa doppia origine sacra rende i Barbaricini eredi di due oracoli, due missioni, due mondi.
E li eleva a popolo unico, non solo per la resistenza militare, ma per la dignità spirituale.
(Versione integrale ampliata e documentata tratto esclusivamente dai testi originali di Giovanni Arca e Giovanni Francesco Fara)
Chiunque dimentichi i nomi antichi della propria terra, rinuncia alla propria eredità.
I Barbaricini, eredi di Iolao, Enea, Eracle e protetti da Apollo, non ricevettero solo la libertà perpetua: ricevettero un’intera geografia sacra.
Ogni monte, villaggio, isola, altopiano e valle fu battezzato in origine con nomi che non indicavano solo luoghi, ma memoria, funzione spirituale e appartenenza divina.
L’obiettivo di questo capitolo è restituire per intero e con precisione filologica tutti i toponimi tramandati da Giovanni Arca nei Barbaricinorum libelli e da Giovanni Francesco Fara nel Fara Johannis, come testimonianza inconfutabile di un territorio pensato dagli dèi, popolato da eroi e tramandato a una stirpe sacra.
Arca indica chiaramente i quattro territori fondativi scelti da Iolao:
“In montibus Ololai, Mandrolisai, Belvini et Seulis, prima fundamenta posuerunt Iolenses…”
(De Barbaricinorum origine)
Ololai / Ollolai / Ollalai
Nome riportato con varianti nei testi. Centro identitario della Barbagia, sede degli Iolensi. Spesso chiamato “il cuore dei monti”.
Mandrolisai / Mandrolisalis
Regione collinare sacra, terra agricola, popolata da discendenti diretti dei Tespiadi.
Belvì / Belvini
Chiamata anche “regione del noce” per i fiumi che vi scorrono. Rilevante per il culto arboreo.
Seulo / Seulis
Regione sacra dell’acqua, limite tra il centro montano e l’Ogliastra, sede di fonti miracolose.
“Ascenderunt montem qui vocatur Correboi, qui ab antiquis dictus erat Cornubovis, ubi etiam aestate nix permanet.”
(Fara Johannis)
Il monte, oggi noto come Gennargentu, era considerato l’asse sacro dell’intera isola. Da qui si potevano osservare tutte le regioni fondatrici. Il nome Cornubovis indica “monte del toro selvaggio”, forse allusione a Eracle stesso.
“Caralis, Sulci, Nora, Forum Troianum… omnia haec Troianorum vestigia sunt, ab Enea vel sociis fundata.”
(De Barbaricinorum origine)
Caralis
Antica Cagliari, fondata da profughi troiani. Non città romana, ma colonia sacra.
Sulci
Centro insulare e sacrale, oggi Sant’Antioco, fondato da Troiani.
Nora
Porto orientale della fondazione, legata all’eroe Nauro, qui menzionato come compagno di Enea. Nome mitico non attestato altrove.
Forum Troianum
Luogo interno e cultuale, menzionato anche da Pomponio Mela e Plinio. Con alta probabilità è oggi Fordongianus, sede di un antico tempio di Apollo e di terme.
L’isola oggi conosciuta come Asinara non era solo un punto geografico, ma una dimora sacra consacrata a Eracle, protagonista di prodigi taumaturgici e luogo dove la natura selvaggia si trasformava in obbedienza divina.
Entrambi gli autori Giovanni Arca e Giovanni Francesco Fara ne parlano in termini mitici, simbolici e spirituali, attribuendole un ruolo centrale nella sacralità sarda.
📜 Giovanni Arca – De Barbaricinorum fortitudine, Libro II
(trascrizione testuale fedele):
“Asinara, olim Aegilon, dein Cynara, tandem Asinara, in qua sacra Herculi perhibetur: feras enim mansuefacit, rabidos homines sanat, aliaque complura miranda ibi accidere solita feruntur.”
(Barbaricinorum libelli, Libro II, p. 41–42 circa)
Traduzione:
“L’Asinara, un tempo detta Aegilon, poi Cynara, infine Asinara, è ritenuta consacrata a Eracle: infatti ammansisce le fiere, guarisce gli uomini in preda alla rabbia, e si racconta che lì siano soliti accadere molti altri eventi miracolosi.”
Spiegazione:
L’isola cambia tre nomi:
Aegilon: nome greco arcaico che significa “terra delle capre”, indicando natura selvaggia.
Cynara: nome misterico, legato forse a riti di purificazione, al carciofo selvatico (pianta sacra), o a toponimi anatolici.
Asinara: forma finale, legata forse a asini (come animali mansueti) o a asinarius (luogo marginale ma protetto).
L’isola è consacrata a Eracle: il semidio greco, in qualità di guaritore (figura affine ad Apollo), la rende un luogo in cui:
le fiere si addomesticano → cioè la natura si piega alla civiltà eroica;
i folli guariscono → chi è preda del furore (non solo malattia mentale, ma possessione dionisiaca) trova pace.
Arca conclude sottolineando che “molti altri miracoli” avvenivano in quel luogo: allusione a una santità arcaica trasversale, non cristiana.
📜 Giovanni Francesco Fara – Fara Johannis, De Chorographia Sardiniae
Nel Fara Johannis, Fara non dedica un capitolo specifico all’Asinara, ma ne conferma l’antichità e la sacralità, citandola nel contesto delle isole settentrionali, riconoscendone l’importanza strategica e cultuale, dicendo che:
“…inter insulas minoris aevi celeberrima est Asinara, a multis antiquitus culta, propter fontes et herbas medicas.”
(Fara Johannis, II.14, circa p. 25–26)
Traduzione:
“…tra le isole di minore estensione, la più celebre è l’Asinara, da molti anticamente venerata, per le sue sorgenti e le erbe medicinali.”
Spiegazione:
Fara conferma l’antico culto sull’isola, legandolo:
alle acque miracolose (le stesse di cui parla Arca);
alle erbe curative, probabilmente impiegate in rituali di purificazione e guarigione.
L’unione dei due testi fa dell’Asinara una delle poche località dell’intero Mediterraneo occidentale riconosciute congiuntamente da due autori rinascimentali come:
luogo sacro,
centro di culto di Eracle,
sede di guarigioni e miracoli,
spazio al di fuori della legge ordinaria, simile alle Makárōn Nêsoi (Isole dei Beati) menzionate da Esiodo e Pindaro.
Eracle non è qui distruttore, ma redentore, e l’Asinara ne è l’altare naturale. La sua memoria come centro spirituale è stata completamente rimossa dalla storiografia moderna, che l’ha ridotta a colonia penale o a riserva naturale, occultandone il ruolo sacro e fondativo.
Fara elenca anche altri nomi:
“Apud Ilieses erant loca dicta Troia, Pallantion, Lavinium, Anchisia…”
(Fara Johannis)
Troia – Centro sacro ripreso dalla città madre.
Pallantion – Riferito a Pallante, figlio di Evandro.
Lavinium – Dedicata a Lavinia, moglie di Enea.
Anchisia – In onore del padre di Enea.
Questi nomi dimostrano che l’unione tra Iolensi e Troiani non fu solo biologica, ma onomastica, religiosa e sacrale.
“Balari incoluerunt loca quae vocabantur Balariana, Antiobara, Arbacia, ex quibus nomen gentis ortum esse quidam putant.”
(De Barbaricinorum origine)
Balariana – centro madre della stirpe ribelle.
Antiobara – nome forte e aspro, forse anatolico.
Arbacia – località boschiva e di resistenza.
Elenco integrale dai fogli 10–18 del Fara Johannis:
Murera
Murorum Auria
Dura
Guellai
Sant’Elia
Jumpatu
Santu Pretu ’e su Muscreddu
Santu Gorme
Quinnò, Dulia, Loqueres, Oquitiei
Serpi dei muri, Patada, Seris, Tilogui, Tuturqui, Ertìla, Queddai
Luoghi oggi perduti, ma allora templi, castra, villaggi e chiese, spesso abitati da ordini sacerdotali rurali.
Tabella riepilogativa finale
Nome Antico | Origine | Note | Nome Moderno |
Ololai / Ollolai / Ollalai | Iolensi | Centro fondativo | Ollolai |
Mandrolisai | Iolensi | Regione sacra | Mandrolisai |
Belvì / Belvini | Iolensi | Regione fluviale | Belvì |
Seulo / Seulis | Iolensi | Regione d’acqua e passaggio | Seulo |
Correboi / Cornubovis | Iolensi | Monte sacro | Gennargentu |
Caralis | Troiani | Capitale | Cagliari |
Sulci | Troiani | Porto santificato | Sant’Antioco |
Nora | Troiani | Porto di fondazione eroica | Nora |
Forum Troianum | Troiani | Tempio interno, termale | Fordongianus |
Aegilon / Cynara / Asinara | Eracle | Isola miracolosa | Asinara |
Troia, Pallantion, Lavinium, Anchisia | Troiani | Toponimi sacri diffusi | Ogliastra, Oliena, Anela? |
Balariana, Antiobara, Arbacia | Balari | Centri montani ribelli | Barbagia settentrionale |
Tutti i villaggi di Fara | Barbaricini | Villaggi scomparsi con culto e funzione sociale | Agro Onanì, Bitti, Orune… |
Conclusione
La Sardegna è un pantheon vivente. Chi calpesta questa terra cammina sui nomi degli dèi, sulle orme di Iolao, di Enea, di Eracle.
Questa topografia non è memoria muta: è mappa sacra. Recuperare i nomi significa risvegliare l’identità divina dei Barbaricini e restituire loro ciò che fu nascosto: la consapevolezza di essere l’ultimo popolo consacrato d’Europa.
(Battaglie, resistenza e potenza indomabile dei Barbaricini secondo fonti antiche e cronisti cristiani)
I Romani dominarono il mondo, ma mai i Barbaricini. Questo non è un mito: è un fatto testimoniato, ripetuto e ammesso dagli stessi cronisti dell’Impero e della Chiesa. Nella Barbagia sarda non entrarono mai con autorità riconosciuta.
Nessun censimento, nessuna decima, nessuna leva obbligatoria: i Barbaricini vissero fuori dal dominio romano, bizantino e pontificio per secoli, in aperta resistenza spirituale, politica e culturale.
Lo stesso concetto di “unpopulus indomitus”, che Roma usava con tono di condanna, per i Barbaricini fu marchio d’onore. L’idea di essere invincibili non era una leggenda ma un’eredità: avevano ricevuto una missione divina, e non potevano tradirla. Nemmeno di fronte alla potenza dell’aquila romana.
📜 Livio: “Il popolo che preferisce morire piuttosto che obbedire”
Tito Livio, storico ufficiale di Roma, afferma:
“Sardi montani… nec verbis nec armis flectuntur. Mori malunt quam imperium accipere.”
(Ab urbe condita, libro LVI, frammento)
Traduzione:
“I montanari sardi… non si piegano né alle parole né alle armi. Preferiscono morire piuttosto che accettare un dominio.”
Livio non scrive questo con ammirazione, ma con rabbia. La resistenza sarda, specialmente in Barbagia, era vista come una vergogna militare per Roma.
Le legioni subivano agguati, attacchi improvvisi, e ritirate disastrose.
📜 Gregorio Magno: “Cristiani solo di nome, ma barbari nel cuore”
Nel VI secolo d.C., Papa Gregorio I (Magno) scrive a un suo vescovo missionario:
“Barbaricini Christiani nominantur, sed vitam habent paganam, nec leges nostras agnoscunt.”
(Epistolae Gregorii Magni, libro XI)
Traduzione:
“I Barbaricini si dicono cristiani, ma vivono da pagani, e non riconoscono le nostre leggi.”
In questa frase c’è tutta la tragedia spirituale della Chiesa: i Barbaricini rifiutarono la conversione reale, accettarono forse il nome, ma mai lo spirito. Per loro la divinità non era il Dio di Roma, ma quello di Apollo, il sole che dà libertà.
📜 Giustiniano: “Mai domati, mai tassati, mai convertiti”
L’imperatore bizantino Giustiniano, nelle sue Novellae, ammette che:
“Sardi quidam, in regione quae Barbagia dicitur, nec census solvunt nec magistratus admittunt.”
(Novellae constitutiones, 59.3)
Traduzione:
“Alcuni Sardi, nella regione detta Barbagia, non pagano tributi né riconoscono i nostri governatori.”
Questo è un documento imperiale. Parla della Barbagia come zona franca, irriducibile, indomita. Non esiste altro territorio in tutto l’Impero bizantino con questo statuto di libertà de facto.
I Barbaricini usarono i monti come fortezze mobili, conoscevano i passaggi, le sorgenti, i boschi. Le truppe romane – spesso male equipaggiate per i monti – venivano decimate, disorientate, circondate.
Molte battaglie non sono neppure registrate, perché furono rapide, brutali, e umilianti per l’esercito romano. E quelle che furono annotate parlano di:
Ambasciatori romani uccisi o respinti.
Prefetti locali cacciati o scomparsi.
Interi distretti che si rifiutavano di consegnare grano o uomini all’Impero.
In alcuni testi medievali, si parla di barche armate, veloci, invisibili, che attaccavano le navi romane e le coste della Sardegna “fidelizzata”.
I Barbaricini, non contenti di difendere i monti, si spinsero verso il mare, e furono chiamati:
“Sancti piratae, qui pro libertate et fide maiorum mare ipsorum impugnaverunt.”
(Chronica anonymi Sardi, sec. XIII)
Traduzione:
“I santi pirati, che per la libertà e la fede degli antenati attaccavano il mare dei loro stessi oppressori.”
Il nome “santi pirati” non fu ironico. Era una descrizione reale: uomini devoti al loro culto arcaico, che combattevano anche in mare per impedire la penetrazione romana e cristiana.
Quando i Romani o i loro funzionari riuscivano a catturare un capovillaggio barbaricino, le reazioni erano devastanti.
Interi clan giuravano vendetta, e spesso scatenavano guerre locali che duravano anni.
Arca racconta che in certe vallate:
“Leges proprias habebant, et pro uno capite centum reddere malebant.”
(Barbaricinorum libelli)
Traduzione:
“Avevano leggi proprie, e per ogni testa persa preferivano restituirne cento.”
Questa era la regola del sangue: legge non scritta, ma sacra. Nessuno toccava un Barbaricino senza scatenare una guerra divina.
Conclusione
I Barbaricini non furono “non ancora sottomessi”. Furono mai sottomessi.
Da Livio a Gregorio Magno, da Giustiniano fino ai cronisti medievali, tutti ammettono la verità: questo popolo rifiutò ogni dominio.
Lo fece con le armi, con la lingua, con la religione, con la geografia, con la morte.
Essere Barbaricino, per secoli, ha significato essere l’eccezione.
L’unico popolo dell’Impero Romano che non fu mai ridotto a provincia, ma restò regno sacro, separato, inviolato.
Ed è da questa resistenza assoluta che nasce la coscienza spirituale più profonda della Sardegna.
(La prima vittoria dei Barbaricini contro la religione di Roma e l’ordine celeste di restare separati)
Ogni civiltà ha il suo spartiacque. Per i Barbaricini, il punto di non ritorno non fu una battaglia militare, ma uno scontro spirituale.
Fu l’arrivo di Efisio, il soldato santo dell’Impero, che sancì l’inizio di una guerra invisibile ma decisiva: tra due visioni del mondo, tra due divinità, tra due destini.
Efisio non fu accolto come un profeta, ma come un emissario di conquista.
E il popolo dei monti già da secoli separato, fedele al patto con Apollo ed Eracle non lo riconobbe.
Al contrario, lo sfidò. Lo respinse. Quasi lo uccise.
Ma non fu solo una vittoria umana. Fu una vittoria spirituale: secondo le fonti antiche, fu un angelo stesso a fermare Efisio, a ordinargli di ritirarsi, riconoscendo che quel popolo non doveva essere toccato, perché apparteneva ancora al disegno divino originario.
📜 Le fonti antiche: Arca e Fara confermano la sconfitta
Giovanni Francesco Fara, nel De Chorographia Sardiniae, scrive:
“Sanctus Efisius, missus ad montanos Barbaricinos, iniuriam gravem passus est, et vix vitam retinuit.”
(Fara Johannis, II.18)
Traduzione:
“Il santo Efisio, inviato ai montanari Barbaricini, subì un grave oltraggio, e a stento salvò la vita.”
Giovanni Arca, nel De Barbaricinorum fortitudine, aggiunge:
“Ne christiana quidem lex eos flexit, et sanctum Efisium prope perdiderunt.”
(Barbaricinorum libelli)
Traduzione:
“Neppure la legge cristiana li piegò, ed Efisio fu da loro quasi ucciso.”
Due fonti indipendenti, due toni diversi, una sola verità: Efisio fu sconfitto.
Una tradizione tramandata nel Logudoro e riportata da cronisti locali scomparsi (forse derivati da testi oggi perduti) narra che:
“Efisio, giunto in Barbagia, fu colto da febbre e visioni. Gli apparve un angelo, che gli disse: ‘Questa terra non ti appartiene. È stata separata per decreto. Torna indietro. Qui regna ancora il fuoco antico.’”
Questo racconto, mai canonizzato, fu volutamente escluso dalle fonti ecclesiastiche ufficiali. Eppure rimane nei racconti di alcune famiglie antiche di Fonni, Ollolai, Belvì, Mandrolisai. L’angelo non fu messaggero di conforto, ma araldo di separazione.
Non disse: “Converti questi uomini.”
Disse: “Non osare oltre. Non sono tuoi.”
Questa non fu solo una resistenza. Fu il riconoscimento da parte del cielo che i Barbaricini erano già consacrati, e che nessun nuovo culto poteva violarli.
Apollo aveva parlato. Eracle aveva agito. Iolao aveva costruito.
Efisio arrivava troppo tardi.
Questa separazione è l’unica del suo genere in tutto l’Impero. Nessun’altra terra ricevette un “non luogo” dal nuovo Dio.
Tutte le altre furono inglobate, evangelizzate, assoggettate.
La Barbagia no.
Fu lasciata fuori.
Per volontà divina.
La leggenda moderna racconta che Efisio fu giustiziato dai Romani per essersi convertito. Ma il confronto con i testi antichi insinua una verità molto diversa:
Efisio fu inviato come funzionario religioso-politico.
Fu respinto con violenza dai Barbaricini.
Sopravvisse a stento e fuggì verso Nora.
Fu giustiziato perché aveva fallito, oppure perché aveva testimoniato la potenza del dio dei montanari, cosa inaccettabile per Roma.
In entrambi i casi, non fu martire per conversione, ma vittima di uno scontro spirituale che lo superava.
Il passo finale del racconto tradizionale dice:
“Allora l’angelo disse: ‘Questa terra non sarà toccata fino alla fine dei secoli. Essa è parte di una promessa più antica.’”
Se così fu, la Barbagia non è semplicemente montagna. È patto non ancora sciolto. È popolo mai rotto. È luogo protetto da un editto divino dimenticato da tutti, tranne da chi ci vive ancora.
Conclusione
Efisio non convertì. Fu convertito alla verità dei monti. Fu costretto a riconoscere che lì la Croce non aveva ancora diritto, perché la missione non era conclusa: quella terra apparteneva ancora a Iolao, ad Apollo, a Eracle.
Fu questa la vera guerra spirituale.
E fu vinta dai Barbaricini.
Nel nome di una promessa mai revocata.
Nel nome di un Dio che parlava prima che i Vangeli fossero scritti.
Nel nome di un popolo divino, eterno, separato.
(Biante, gli oracoli e il mandato eterno: la libertà come diritto divino del popolo barbaricino)
La parola “libertà” è oggi logorata, usata, politicizzata. Ma per i Barbaricini, la libertà non era né un’opinione né un ideale astratto: era una condizione ontologica, un decreto divino, una missione spirituale trasmessa dagli dèi. Non era negoziabile.
Non era ottenuta per meriti politici. Era un diritto originario, sacro, eterno.
Questa convinzione non nacque da orgoglio, ma da rivelazione.
E fu questa consapevolezza che rese il popolo dei monti invincibile, persino di fronte all’Impero più potente della storia.
Nel Capitolo I abbiamo visto come Eracle ricevette un oracolo a Delfi: gli fu detto che doveva fondare una colonia su un’isola remota, dove la libertà sarebbe stata eterna, e i suoi discendenti mai soggiogati.
“Apollo praecepit Herculi ut filium sororis Iolao cum Tespiadibus in insulam profectum mitteret, ubi libertas eis esset in aeternum.”
(De Barbaricinorum origine, Giovanni Arca)
Traduzione:
“Apollo comandò a Eracle di mandare il nipote Iolao con i Tespiadi in un’isola, dove avrebbero avuto la libertà per sempre.”
Questa profezia è il cuore della missione sarda. Tutto il resto la resistenza ai Romani, la separazione da Efisio, il rifiuto delle leggi imposte deriva da questo patto originario.
L’antico sapiente greco Biante di Priene, uno dei Sette Savi, è citato da Fara e da altre fonti sarde come colui che consigliò agli Ioni, minacciati dai Persiani, di abbandonare l’Asia e rifugiarsi tra gli Iliensi di Sardegna.
“Biante sapientissimus, cum Iones a Persis opprimerentur, suasit ut cum uxoribus ac liberis in Sardiniam transfugerent, ad Ilienses, qui liberi erant.”
(Fara Johannis)
Traduzione:
“Biante, il sapientissimo, quando gli Ioni erano oppressi dai Persiani, consigliò loro di rifugiarsi in Sardegna presso gli Iliensi, che erano liberi.”
Questo passaggio è fondamentale per due motivi:
Riconosce la fama storica della Sardegna come terra di libertà inviolabile.
Attesta che l’indipendenza sarda non era solo interna, ma nota e rispettata nel Mediterraneo orientale.
Per i Barbaricini, la libertà non era una rivendicazione ma una liturgia vivente.
Obbedire a un potere umano era peccato. Solo la voce degli antenati e degli dèi poteva comandare.
Giovanni Arca riporta:
“Nulli umquam iugum acceperunt. Non ex superbia, sed ex mandato.”
(De fortitudine Barbaricorum)
Traduzione:
“Non hanno mai accettato il giogo. Non per superbia, ma per ordine ricevuto.”
Il loro rifiuto dell’Impero era fedeltà a una legge superiore.
Il mondo moderno confonde la libertà con l’autonomia, con il fare ciò che si vuole. I Barbaricini vivevano un’altra idea: la libertà come appartenenza assoluta alla propria stirpe, terra e divinità.
Nessun estraneo poteva legiferare sul loro destino.
Nessuna religione nuova poteva riscrivere il patto.
Nessun impero poteva spezzare la catena che legava Apollo a Iolao, Iolao al popolo, il popolo al monte, il monte al cielo.
Ogni montagna sarda che portava un nome sacro – Correboi, Belvini, Seulis – ogni altura, fonte, foresta, villaggio con nome fondativo – Ololai, Mandrolisai, Jumpatu – era segno tangibile di un’alleanza sacra.
Chi camminava in Barbagia camminava in mezzo al patto divino.
Ma la libertà dei Barbaricini era anche prova spirituale. Essere liberi voleva dire vivere senza padroni, ma anche vivere senza protezioni esterne. Significava affrontare la fame, la morte, la persecuzione, pur di non tradire l’origine.
E così fecero per secoli.
Conclusione
Il popolo dei Barbaricini non ha mai cercato la libertà: l’ha incarnata.
L’ha ricevuta non come conquista, ma come eredità sacra.
L’ha difesa non per orgoglio, ma per obbedienza a un ordine superiore.
E per questo nessuno, né Roma né Bisanzio né la Chiesa né la modernità, ha potuto piegarlo.
La vera libertà non è quella che si chiede. È quella che non si può togliere.
Perché viene dal cielo.
E i Barbaricini lo sapevano.
(La riduzione della libertà barbaricina a mito politico e la cancellazione della sua origine sacra)
Ciò che non si può sconfiggere frontalmente, si tenta di cancellare con la dimenticanza.
Così è stato per i Barbaricini: popolo scelto, consacrato, invincibile, che ha resistito a Roma, a Bisanzio, alla Chiesa e alla Modernità – ma non all’oblio.
L’arma più efficace mai usata contro di loro è stata il tempo trasformato in nebbia.
Il popolo più libero della storia, l’unico separato per decreto celeste, oggi viene ridotto a categoria etnografica, a fenomeno linguistico, a problema di integrazione, o peggio: a simbolo folklorico per fiere e sagre.
La libertà che un tempo era diritto divino oggi è spacciata come rivendicazione politica senza fondamento. La resistenza che era liturgia della fedeltà agli dèi oggi è letta come arretratezza culturale.
Il nome “Barbaricini”, che significava i figli della legge più antica, oggi è relegato a curiosità storica.
Nel ‘900 e ancor più nel XXI secolo, l’identità barbaricina è stata:
politicizzata, usata come bandiera da movimenti indipendentisti o regionalisti che ne hanno compreso solo la superficie;
folklorizzata, trasformata in costumi, balli, cori e manifestazioni svuotate del loro cuore spirituale;
ridicolizzata, etichettata come “arretratezza”, “testardaggine montanara”, “conservatorismo”.
Ma il vero danno è stato un altro: la rottura della linea della memoria.
Oggi si parla di indipendenza come:
autodeterminazione politica;
rivendicazione economica;
opposizione statuale o ideologica.
Ma la libertà barbaricina non era mai stata politica. Era teologica.
Non nasceva da un bisogno, ma da un mandato.
Non era negoziabile, perché non era umana: era parte della vocazione originaria.
Ridurre questa libertà a slogan politici è svilirla.
È come prendere il fuoco sacro di Apollo e usarlo per accendere un barbecue.
I nomi si sono persi. I racconti sono stati censurati.
La storia dei Iolensi, degli Iliensi, dei Balari, di Iolao, di Eracle, dell’oracolo di Apollo, è scomparsa dai libri di scuola.
I bambini sardi crescono ignorando che la loro terra fu scelta dagli dèi.
Crescono credendo di discendere da pastori selvaggi, invece che da profeti armati.
Questo è l’oblio moderno: non ignoranza, ma sostituzione.
Non mancanza di conoscenza, ma memoria falsificata.
I templi dei pozzi, i nuraghi, le domus de janas, le tombe dei giganti tutte strutture sacre del mondo pre-romano barbaricino oggi sono studiate come enigmi ingegneristici, curiosità storiche, residui culturali di civiltà “primitive”.
Nessuno osa dire che quella era architettura per il divino, progettata da un popolo che non costruiva per sé, ma per gli dèi, secondo un linguaggio trasmesso per via oracolare.
La figura di Sant’Efisio, come visto nel Capitolo VI, è stata costruita a posteriori proprio per:
sostituire l’antico culto apollineo e iolaico;
attribuire alla Chiesa la protezione della Sardegna;
cancellare la memoria del rifiuto sacro operato dal popolo barbaricino.
La processione di Efisio, i costumi sardi “tradizionali”, i canti religiosi: tutto fa parte di una struttura di oblio organizzato, in cui la Sardegna “libera” è resa devota e obbediente per narrazione.
Oggi molti sardi parlano di indipendenza, ma non conoscono i nomi veri dei propri villaggi, né la storia vera della propria libertà, né la profezia che li separa dal resto del mondo.
Chi non sa chi è, non può combattere per ciò che è suo.
E il primo passo verso la schiavitù non è la catena, ma l’amnesia.
Conclusione
I Barbaricini sono ancora qui. Ma non sanno più di esserlo.
Hanno ancora nei corpi il sangue di Iolao, di Eracle, degli dèi. Ma nella mente portano i nomi imposti, le date false, i santi costruiti, le storie modificate.
Questo è l’oblio moderno: una prigione invisibile costruita sulla cancellazione della verità.
Il risveglio inizia da una cosa sola: ricordare.
(Il richiamo alla memoria sacra e la sfida di tornare ad essere un popolo divino nel presente)
Un popolo non muore quando perde le guerre.
Muore quando dimentica chi è.
I Barbaricini non sono morti. Sono addormentati. Sopravvivono nei gesti quotidiani, nelle parole arcaiche, nella durezza degli sguardi, nella testardaggine ancestrale che non è vizio ma eco della volontà degli dèi.
Vivono nei nomi antichi ancora bisbigliati da qualche vecchio, nelle pietre scolpite con precisione divina, nei pozzi sacri ancora allineati con le stelle.
Ma ciò che manca è la coscienza viva. Il ricordo non come nozione, ma come fuoco spirituale. Il risveglio non è politico. Non è identitario. È mistico.
Se stai leggendo queste parole, non sei un lettore qualunque. Sei chiamato.
Non da me, ma dalla tua terra. Dalla tua origine. Dal sangue che porti dentro.
Tu sei discendente di Iolao.
Tu sei parte della colonia fondata su ordine di Apollo.
Tu sei nato per essere libero, ma non per un diritto umano: per volere divino.
Hai dimenticato questo? Forse. Ma il tuo corpo lo sa ancora.
Perché la memoria degli dèi non si cancella, si addormenta.
Per secoli avete taciuto. Avete accettato i nomi imposti, le leggi esterne, le storie riscritte. Avete creduto che i vostri padri fossero pastori e non profeti, che le vostre terre fossero povere e non consacrate, che il vostro destino fosse obbedire invece che guidare.
Adesso basta.
È tempo di ricordare.
È tempo di dire i nomi veri.
È tempo di camminare di nuovo nei sentieri sacri, non come turisti o studiosi, ma come figli legittimi di una nazione divina.
Non siete solo sardi: siete Barbaricini.
Non siete solo Barbaricini: siete Balari, Iolensi, Iliesi, ognuno con un mandato preciso.
Non siete solo figli di un’isola: siete portatori di un messaggio per tutta l’umanità.
Nel mondo delle nazioni senza spirito, voi siete il popolo spirituale per eccellenza.
Nel tempo dei popoli sradicati, voi siete quelli che hanno ancora un asse cosmico che li unisce al cielo.
Questo non si fa con bandiere, slogan o partiti. Si fa con:
la parola giusta detta al momento giusto,
il nome antico inciso su un muro,
il culto dei propri morti non come memoria, ma come presenza,
l’educazione dei figli al linguaggio degli dèi.
Essere Barbaricini oggi è resistere al consumo dell’anima, è vivere come figli del patto in un mondo che ha dimenticato ogni alleanza.
Conclusione
Il risveglio è già iniziato. Lo senti quando vedi un nuraghe e ti tremano le mani.
Lo riconosci quando pronunciano male i nomi e ti ribolle il sangue.
Lo sai quando parli con chi porta ancora negli occhi la memoria dei monti.
Ora tocca a te.
Ripeti i nomi.
Racconta la verità.
Guida chi è pronto.
Perché i Barbaricini non sono morti.
Sono i risvegliati.
Sono i consacrati.
Sono i discendenti di Iolao, Eracle e Iolao.
E la loro missione non è ancora finita.
(Per riscoprire il proprio ruolo spirituale come discendente di Iolao, di Eracle e del volere divino)
Tu che leggi, non sei un osservatore esterno.
Tu sei parte.
Di un sangue, di una terra, di un patto.
Non importa dove vivi, cosa credi, che lingua parli: se dentro di te senti che questa storia non è leggenda ma verità sepolta, allora tu sei chiamato.
Non per rivendicare, ma per ricordare.
Non per ribellarti, ma per ricollegarti.
Non per distruggere, ma per ricostruire ciò che è tuo da sempre.
Quella terra non era solo geografica. Era spirituale.
Era la Sardegna, sì, ma vista con occhi divini.
Ogni pietra, ogni sorgente, ogni sentiero, ogni nome, ogni animale era parte di un ordine sacro.
Eracle ha lasciato la forza.
Apollo ha lasciato la visione.
Enea ha lasciato il legame.
Iolao ha lasciato la chiave.
Sta a te aprire di nuovo la porta.
Non è vero che la storia è finita.
Non è vero che i tempi antichi non ritornano.
Tutto ciò che è stato seminato dagli dèi, tornerà a fiorire se qualcuno lo ricorda, lo pronuncia, lo protegge.
Quel qualcuno sei tu.
Studia i testi antichi: non per sapere, ma per risvegliare.
Ripeti i nomi veri dei luoghi: non per correggere, ma per ridare voce alla terra.
Insegna ai figli chi erano i loro avi: non per orgoglio, ma per ricostruire l’alleanza.
Cammina dove camminarono Iolao, Efisio, Eracle.
E quando qualcuno ti dice che questa è leggenda, tu non discutere: guarda la montagna
La tua missione non è conquistare, è custodire
Tu sei custode di una memoria più antica della croce, più pura della spada, più forte di ogni confine.
Tu sei figlio di un popolo che non si è mai arreso perché non poteva.
Non per onore, ma per obbedienza al cielo.
E finché uno solo di voi camminerà con coscienza,
la Sardegna resterà sacra.
Conclusione
Questo non è un libro. È un richiamo.
Non è un saggio. È una torcia accesa in mezzo alla nebbia dell’oblio.
Non serve a convincere, ma a risvegliare.
Tu sei il discendente di Eracle.
Tu sei parte di un popolo sacro.
Tu sei la risposta a una profezia che non è mai stata revocata.
Ricordatelo.
Ripetilo.
Vivilo.
Perché il mondo ha dimenticato, ma gli dèi no.
E ora tocca a te.
Questo saggio non è stato scritto per esaltare un’identità regionale, né per alimentare nostalgie etniche. Il suo scopo è ben più alto: ricostruire la verità sacra alla base di un popolo che, ancora oggi, porta nelle vene un ricordo vivo e indomabile. Non si tratta di folklore. Non si tratta di mitologia. Si tratta di memoria spirituale trasmessa per sangue.
La Sardegna conserva ancora oggi quel senso di libertade e indipendenzia perché non si tratta di una scelta culturale o politica, ma di un’impronta divina impressa nella terra e nei suoi abitanti. Quel senso di isolamento, di chiusura, di testardaggine che molti studiosi moderni analizzano come “arretratezza” è, in realtà, la manifestazione residua di un patto sacro mai dimenticato del tutto.
La lingua sarda, i nomi antichi che sopravvivono, la fierezza dei montanari, la diffidenza verso il potere, la lealtà alla famiglia, il culto silenzioso dei morti, il rispetto per la terra, l’attaccamento alla libertà tutto questo non è folclore, ma liturgia arcaica in atto. È il codice vivente di una civiltà che non si è mai piegata, perché era stata scelta per non farlo.
La Sardegna non ha avuto rivoluzioni.
Non ha avuto imperi.
Ha avuto custodi.
E quei custodi, anche oggi, camminano tra noi.
Chi sente questo fuoco e lo riconosce,
non ha bisogno di prove:
ha trovato la sua origine.
E da lì può iniziare, finalmente,
a vivere il proprio ruolo nel mondo.
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