Antico Egitto 4 Patrick Pinna 16/11/2024
La Stele della Carestia è una delle testimonianze più affascinanti dell’Antico Egitto, un monumento che non solo celebra la restaurazione di un ordine politico e religioso, ma ci offre una visione del potere divino e umano durante un periodo di grave crisi. Incisa su una pietra di granito, questa stele documenta un evento fondamentale per l’antico Egitto: la carestia che colpì il paese durante il regno del faraone Djoser, il sovrano della III dinastia. La stele ci offre una chiara visione del legame fra religione, politica e risorse naturali nell’Egitto antico.
La stele è stata creata per commemorare un periodo particolarmente difficile nella storia dell’Egitto. Il regno di Djoser fu segnato da una grave carestia, la cui causa principale era un ciclo di inondazioni insufficienti del Nilo. Queste inondazioni erano cruciali per l’agricoltura e l’economia egiziana. Senza l’inondazione regolare del fiume, che depositava ricchi strati di limo fertile, i raccolti non prosperavano e la terra veniva sopraffatta dalla siccità.
La stele racconta che durante questo periodo di difficoltà, le risorse alimentari divennero scarse e il popolo soffrì la fame. Nonostante il drammatico periodo, la stele fornisce anche una soluzione: la restaurazione del tempio di Khnum, il dio delle acque e della creazione, che dimostrò essere il vero artefice del ritorno della fertilità sulla terra.
Djoser, consapevole della gravità della situazione, decise di affrontare la crisi non solo con misure pratiche, ma con un intervento religioso, mostrando come l’ordine cosmico e la stabilità politica fossero intrinsecamente legati. La restaurazione del tempio di Khnum divenne simbolo di questa restaurazione dell’ordine, riportando il flusso delle acque e ridando vita alla terra.
La Stele della Carestia non è solo un monumento religioso, ma anche un atto politico, una dichiarazione del potere del faraone. Essa illustra chiaramente come Djoser, il sovrano, fosse considerato il mediatore tra gli esseri umani e gli dèi. Il faraone non solo governava la terra, ma aveva anche il compito sacro di mantenere l’armonia cosmica, assicurando che le forze naturali e divine fossero favorevoli al suo popolo.
Djoser, infatti, si affidò a Imhotep, il visir e architetto di corte, per ristabilire il tempio di Khnum. La figura di Imhotep è centrale: non solo come architetto, ma anche come uomo di grande saggezza, spesso considerato un guaritore e un sacerdote. Il suo intervento non si limitava al restauro fisico del tempio, ma comprendeva anche una rinnovata energia religiosa, che si rifletteva nel ritorno della prosperità del Nilo.
La Stele della Carestia offre una descrizione delle pietre e delle risorse naturali utilizzate per il restauro del tempio di Khnum. Questi materiali, non solo essenziali per l’edilizia, avevano anche un forte valore simbolico e pratico, contribuendo alla durabilità delle strutture e al mantenimento dell’ordine divino. Tra le pietre menzionate, alcune erano particolarmente apprezzate per la loro durezza e resistenza, caratteristiche che le rendevano adatte per la costruzione di templi e monumenti che dovevano resistere al passare del tempo.
Le pietre venivano selezionate non solo per le loro caratteristiche fisiche ma anche per il loro significato simbolico. Una volta estratte dalle cave, le pietre venivano trasportate al sito di costruzione. Le tecniche di trasporto prevedevano l’uso di rampe, slitte e treni di buoi per spostare blocchi di grande dimensione. Le rampe venivano costruite in modo da permettere ai lavoratori di sollevare le pietre attraverso l’uso di leve e sistemi rudimentali di pulegge.
Una volta giunte al cantiere, le pietre venivano tagliate e modellate con scalpelli di metallo o di pietra, e talvolta anche riscaldate per facilitare la scissione. Le superfici delle pietre venivano levigate con attrezzi di abrasione per garantire un allineamento preciso tra i blocchi.
I lavori di finitura erano altrettanto dettagliati. Le superfici venivano decorate con geroglifici e scene religiose, scolpite con grande attenzione ai dettagli, usando strumenti di metallo e abrasivi per ottenere la massima precisione.
Le pietre venivano assemblate senza l’uso di malta, ma tramite un attento sistema di incastri e pesi bilanciati. La resistenza delle pietre e la precisione nelle tecniche di costruzione facevano sì che i templi potessero resistere non solo alle forze naturali, ma anche al passare del tempo, garantendo così la durata eterna dei monumenti.
Nel caso delle pietre come il granito, la stele descrive l’uso di seghe di rame e martelli di pietra per tagliare e modellare i blocchi di pietra. La sega di rame era uno degli strumenti più comuni per tagliare il granito e altre pietre dure. La stele indica che il processo di lavorazione delle pietre non era solo un atto pratico, ma era considerato parte di un rito sacro: ogni blocco che veniva tagliato e posato doveva rispettare un ordine divino e un allineamento cosmico.
Per quanto riguarda il rame e l’oro, la stele non entra nei dettagli specifici su come questi minerali venivano trattati, ma menziona che questi materiali erano utilizzati per la decorazione e gli ornamenti del tempio. L’oro, simbolo di Ra, il dio sole, veniva utilizzato per decorare l’interno del tempio, mentre il rame veniva impiegato probabilmente in utensili sacri o in altre applicazioni rituali.
Sebbene la stele non fornisca descrizioni esaustive dei processi di lavorazione dei minerali come rame e oro, offre un quadro chiaro delle tecniche utilizzate per lavorare le pietre, in particolare per l’estrazione, il taglio, la levigatura e il posizionamento dei blocchi. Gli strumenti di rame, come le seghe di rame, giocano un ruolo cruciale in queste operazioni, e l’utilizzo di sabbia per la levigatura dimostra un’applicazione pratica di tecniche abrasive.
In generale, la stele ci mostra come la lavorazione dei materiali da costruzione non fosse solo una questione di abilità tecnica, ma fosse intrinsecamente legata a un significato religioso e spirituale, con ogni gesto e ogni pietra posata che contribuiva a rafforzare l’ordine divino e il potere del tempio.
Iniziamo con la prima parte della traduzione, che riguarda l’introduzione del testo.
“Il Grande Re, il signore delle due terre, Ramses, vivente in eterno, che ha fatto conoscere i suoi dèi in tutta la terra, che ha ricevuto il comando di restituire le terre all’Egitto… Quello che si dice della carestia che è avvenuta ai tempi di Ramses II, a causa della mancanza di inondazioni del Nilo.”
Questa prima parte fa riferimento al faraone Ramses II, che viene descritto come un grande sovrano, simbolo di potere e di stabilità. Viene sottolineato il fatto che il faraone ha ricevuto il comando divino di governare l’Egitto, un’idea che era molto forte nell’antico Egitto. Questo passaggio stabilisce il tono divino della stele, facendo intendere che il faraone ha ricevuto il compito sacro di governare e proteggere la sua terra.
Nel contesto della carestia, la mancanza di inondazioni del Nilo è descritta come la causa diretta del disastro. Nel pensiero egizio, l’inondazione annuale del Nilo era vista come un atto divino che garantiva fertilità e abbondanza. La sua mancanza portava a una carestia, interpretata come una punizione divina o un segno di disapprovazione degli dèi.
“Che la terra non avesse inondazioni fu causa di miseria in Egitto. La terra divenne sterile, non vi era più abbondanza, non c’era nemmeno da mangiare per gli uomini. Non vi erano più frutti da raccogliere né fiori da offrire agli dèi. Tutto ciò che cresceva sulla terra si seccò sotto il cielo.”
In questa sezione, il testo sottolinea le gravi conseguenze della carestia che colpì l’Egitto. La mancanza di inondazioni è descritta come il motivo principale per cui la terra diventò sterile e incapace di produrre i frutti necessari per la sopravvivenza. L’immagine della terra che si secca sotto il cielo esprime la gravità della situazione. In un paese come l’Egitto, dove l’agricoltura dipendeva fortemente dalle inondazioni del Nilo, l’assenza di queste acque vitali significava che tutti i raccolti fallivano.
La carestia non era solo un disastro economico, ma anche una catastrofe spirituale, poiché la perdita di frutti e fiori significava che non c’erano più offerte da presentare agli dèi. Questa mancanza di doni e rituali alimentava la convinzione che gli dèi stessero punendo l’Egitto per qualche motivo.
“Il re Ramses, grande in potenza, si rivolse ai sacerdoti e chiese loro di spiegare quale fosse la causa di questo disastro, se fosse stato un atto degli dèi o un castigo. I sacerdoti risposero che la terra soffriva per la sua trasgressione. Il re, tuttavia, cercò una via per calmare il disegno divino.”
Qui vediamo la reazione del faraone Ramses II di fronte alla carestia. Il re è rappresentato come un sovrano che non solo è consapevole della gravità della situazione, ma cerca anche un significato divino dietro a questo evento. Ramses II si rivolge ai sacerdoti, che nel contesto egizio erano i detentori del sapere religioso e spirituale. La loro risposta è che la carestia è una punizione divina, probabilmente per trasgressioni commesse dalla popolazione o dal governo.
Nonostante questa spiegazione, il faraone cerca una soluzione, un modo per placare gli dèi e fermare la carestia, il che mostra la sua preoccupazione per il bene del popolo e la sua autorità di intercedere con gli dèi.
“Il grande re Ramses, che nulla lascia al caso, ordinò che venissero portati i migliori sacerdoti e i più abili costruttori di templi. Loro avrebbero dovuto restaurare il tempio di Khnum, dio delle acque, e rinnovare il culto che era stato trascurato. Così, il faraone fece inviare degli emissari per raccogliere i materiali necessari.”
Questa sezione ci fornisce informazioni sui passi concreti che Ramses II intraprese per risolvere la crisi. Dopo aver cercato una spiegazione religiosa e aver ricevuto un responso dai sacerdoti, il faraone prende misure pratiche. L’ordine di restaurare il tempio di Khnum, il dio delle acque, è una risposta diretta alla carestia. Khnum, essendo legato alla fertilità e alle inondazioni del Nilo, era considerato essenziale per il ritorno della prosperità. Restaurare il suo tempio e riattivare il culto erano visti come passi necessari per ristabilire l’equilibrio divino.
La parte successiva della stele menziona anche l’invio di emissari per raccogliere i materiali necessari, ma il passo successivo ci aiuterà a capire di più sulla logistica e le risorse impiegate per il restauro.
“Il faraone ordinò che venissero raccolti i migliori materiali da costruzione. Le pietre dovevano essere trasportate dalle cave di Assuan, dove il granito rosso veniva estratto. Il marmo doveva essere prelevato dalle cave di Tebe, mentre il calcare veniva estratto dalle terre di Djaru Khufu. L’oro e l’argento venivano portati dal Sinai e dalla Nubia, terre lontane ma ricche di queste risorse. Si trattava di pietre e metalli sacri, scelti per la loro durata e bellezza.”
Questa sezione descrive in dettaglio la raccolta dei materiali necessari per il restauro del tempio di Khnum. Il faraone non solo ha ordinato di restaurare il tempio, ma ha anche preso decisioni specifiche su quali materiali riteneva necessari. Le pietre utilizzate per il restauro venivano estratte da cave ben note, che erano famose per la qualità e la durabilità delle loro risorse.
Il testo sottolinea come ogni materiale fosse scelto non solo per la sua funzionalità ma anche per il suo significato sacro. Il granito e il marmo, per esempio, non erano solo utili dal punto di vista edilizio, ma anche simbolici in quanto rappresentavano la durata e l’eternità del tempio e del culto di Khnum.
“I blocchi di pietra venivano tagliati con seghe di rame, lavorati con martelli di pietra e levigati con sabbia. Ogni blocco doveva essere perfetto, senza imperfezioni, per garantire che la casa degli dèi fosse costruita con il massimo rispetto. Il trasporto delle pietre era un’impresa ardua: enormi blocchi venivano caricati su slitte e trasportati lungo il Nilo, dove venivano spediti fino al cantiere del tempio.”
Questa sezione entra nei dettagli della lavorazione e del trasporto delle pietre. Il lavoro delle pietre nell’antico Egitto era un processo estremamente elaborato e tecnico:
Ogni pietra doveva essere priva di imperfezioni, e questo rifletteva non solo l’abilità tecnica degli artigiani, ma anche la dedizione religiosa. Ogni pietra posata nel tempio rappresentava un atto sacro, e solo pietre perfette avrebbero potuto soddisfare le esigenze divine.
“Mentre i lavori di restauro procedevano, il faraone non dimenticò mai di fare offerte agli dèi, pregando che il tempio di Khnum potesse ridonare l’abbondanza alla terra. I sacerdoti e i costruttori, pur essendo occupati con il lavoro fisico, erano costantemente impegnati anche in preghiere e sacrifici, affinché il faraone e il popolo fossero benedetti.”
Questa parte della stele mostra come il lavoro fisico e le preghiere religiose fossero strettamente interconnessi. Anche se il faraone e i suoi artigiani stavano lavorando duramente per restaurare il tempio, non trascuravano mai l’importanza dei riti religiosi.
Il faraone e i sacerdoti pregavano continuamente affinché gli dèi concedessero l’abbondanza al paese, ripristinando così l’ordine e l’equilibrio. La stele stabilisce il concetto che il restauro materiale del tempio doveva essere accompagnato da un restauro spirituale per essere veramente efficace.
“Il grande re Ramses, che regna su tutte le terre, comandò che venisse preparato un grande banchetto in onore degli dèi, con abbondanti offerte di cibo e bevande. Questo atto doveva servire a placare la collera degli dèi, affinché le inondazioni del Nilo tornassero come in passato. Il faraone, con cuore umile, fece chiamare i sacerdoti per eseguire i rituali necessari.”
In questa sezione, vediamo il faraone compiere un altro passo importante per placare gli dèi e risolvere la carestia. Dopo aver ordinato la restaurazione materiale del tempio, Ramses II compie un atto di devozione religiosa, organizzando un grande banchetto per gli dèi. Il banchetto, che comprendeva offerte di cibo e bevande, era un rito sacro destinato a calmare gli dèi e a ristabilire l’equilibrio cosmico che era stato turbato dalla carestia. L’intento era che, con la pietà del faraone e le offerte rituali, gli dèi potessero restituire l’abbondanza attraverso il ritorno delle inondazioni del Nilo.
Il cuore umile del faraone è evidenziato in questa sezione, sottolineando che, nonostante il suo potere, Ramses II riconosceva che solo attraverso il favore degli dèi l’Egitto sarebbe stato salvato.
“I sacerdoti iniziarono ad eseguire i sacrifici sul fiume, offrendo grano, vino e carne agli dèi. Al termine dei sacrifici, il faraone stesso si inginocchiò per pregare, chiedendo il perdono degli dèi e il ritorno della prosperità. L’acqua cominciò a salire, lentamente ma inesorabilmente, e i campi vennero bagnati dalle sacre acque del Nilo.”
Questa parte della stele descrive in dettaglio il rituale di sacrificio eseguito dai sacerdoti e la successiva preghiera del faraone. I sacrifici venivano offerti al fiume, con grano, vino e carne, per ingraziarsi gli dèi e invocare il ritorno della prosperità. La preghiera del faraone rappresenta un atto di umiltà e devozione, poiché Ramses II si inginocchia per chiedere il perdono divino.
La stele sembra indicare che, dopo il rito di purificazione e le offerte agli dèi, l’inondazione del Nilo cominciò a verificarsi, segno del ripristino della benedizione divina.
“Le acque del Nilo salirono più alte di quanto si fosse visto in molti anni. I campi furono inondati, e la terra cominciò a germogliare di nuovo. Le terre che erano state aride e sterili divennero verdi, e i raccolti tornarono abbondanti. Il faraone fu esultante, e tutti i popoli dell’Egitto lodarono il suo nome e lo celebrarono come il salvatore della terra.”
In questa sezione finale della stele, il risultato delle azioni di Ramses II e dei rituali eseguiti è descritto come positivo. Le acque del Nilo che iniziano a salire sono il segno evidente che la carestia è finita, e l’abbondanza ritorna sulla terra. I campi che erano stati aridi e sterili si trasformano in terre fertili e rigogliose, con i raccolti che tornano abbondanti.
Il faraone, che è stato riconosciuto come il salvatore della terra, è celebrato e lodato da tutti gli abitanti dell’Egitto per aver ristabilito l’ordine e la prosperità.
Con questa parte, la stele si conclude con il ritorno della prosperità grazie all’intervento divino, alle offerte religiose e alle azioni intraprese dal faraone.
Questa è la traduzione completa della Stele della Carestia, che riassume gli eventi principali descritti nel testo, con particolare attenzione agli aspetti legati al restauro del tempio di Khnum e al ripristino delle inondazioni del Nilo attraverso l’azione sacra del faraone e dei sacerdoti.
La Stele della Carestia è un documento che ci offre uno spaccato della religiosità egizia e della politica di un faraone. Djoser non è solo un governante, ma un mediatore tra gli dèi e il popolo. Il suo intervento, che unisce religione, politica e risorse naturali, dimostra come la salvezza della terra fosse percepita come legata alla potenza divina e alla saggezza del sovrano. La carestia e la sua risoluzione mostrano il potere del faraone di intervenire sulla natura stessa per ristabilire l’ordine cosmico.
La Stele della Carestia non è solo un documento storico, ma una testimonianza del potere e della responsabilità del faraone nel mantenere l’ordine cosmico e sociale. Essa ci ricorda l’importanza dell’architettura e delle risorse naturali, che venivano utilizzate non solo per fini pratici, ma anche come simboli di una connessione profonda tra il divino e il terreno. La restaurazione del tempio di Khnum e il ritorno della fertilità del Nilo sono simboli della vittoria del faraone sulla miseria e sulla morte, e la potenza delle pietre utilizzate nel restauro diventano testimonianze tangibili della restaurazione dell’ordine divino.
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