FilosofiaMetamorfosiOvidio 1 22 Patrick Pinna 24/11/2024
Pitagora e la Condanna della Carne: Un Grido contro la Violenza
Per lungo tempo, la narrativa storica e scolastica ha presentato l’uomo primitivo come un carnivoro dipendente dalla caccia per sopravvivere. Questa idea, apparentemente radicata nella scienza, si è trasformata in un dogma, perpetuato attraverso programmi scolastici e rappresentazioni culturali dal dopoguerra a oggi. Tuttavia, questa immagine non solo è imprecisa, ma rappresenta una forma di occultamento ideologico finalizzato a supportare modelli moderni di consumo alimentare e produzione industriale.
Pitagora, uno dei più grandi filosofi dell’antichità, offre un’alternativa a questa narrazione distorta. Egli ci presenta un mondo in cui l’uomo antico viveva in armonia con la natura, evitando la violenza verso gli animali e nutrendosi dei doni spontanei della terra. Le sue idee sulla dieta vegetariana e sulla condanna del sacrificio animale ci invitano a riconsiderare il nostro rapporto con il cibo, la natura e le altre forme di vita. Questo articolo esplorerà la condanna di Pitagora al consumo di carne, esaminando come la narrativa moderna sull’uomo primitivo carnivoro sia stata costruita artificialmente e come possiamo riscoprire una visione più autentica e armoniosa del passato umano.
La Condanna al Consumo di Carne e alla Violenza verso gli Animali
Pitagora denuncia il consumo di carne come una pratica empia e moralmente degradante, incompatibile con la natura umana e l’armonia universale. Egli esorta l’umanità a nutrirsi dei doni offerti spontaneamente dalla terra, sottolineando la generosità della natura e l’abbondanza di cibi vegetali:
Pitagora critica aspramente l’atto di cibarsi di carne, ritenendolo una forma di degrado morale e un insulto all’armonia naturale. Egli esprime con forza la sua avversione per questa pratica:
Queste riflessioni portano Pitagora a descrivere l’età dell’oro, un’epoca in cui gli uomini vivevano in equilibrio con la natura, senza violenza verso gli animali:
Pitagora considera il sacrificio animale una pratica empia e inutile, nata dall’ignoranza e dalla crudeltà umana. Secondo il filosofo, gli dèi non desiderano il sangue degli animali, ma piuttosto preghiere sincere e offerte simboliche, come i frutti della terra.
L’innocenza della vittima sacrificale: “La vittima senza macchia, tutta adornata di bende e d’oro, è piazzata davanti all’altare e sente ignara recitate preghiere. Colpita, tinge di sangue il coltello di cui forse ha intravisto il balenio nell’acqua limpida.”
L’assurdità del sacrificio: “Davvero credete che le divinità celesti godano dell’uccisione del laborioso giovenco?”
Pitagora sottolinea l’orrore del sacrificio animale come un atto contrario all’armonia universale e all’etica umana. Gli animali, esseri innocenti, vengono sfruttati e uccisi per superstizioni e credenze errate.
Per Pitagora, il consumo di carne non è solo una questione etica, ma rappresenta una vera e propria corruzione dell’animo umano. Egli sostiene che abituarsi alla violenza sugli animali predisponga l’uomo a commettere atti di crudeltà verso i propri simili:
Questa riflessione dimostra come la violenza verso gli animali possa contaminare anche le relazioni umane, portando a un degrado morale che si riflette in una società meno giusta e armoniosa.
Pitagora invita l’umanità a vivere in armonia con la natura, adottando un’alimentazione basata esclusivamente sui prodotti della terra. Egli considera questa scelta non solo eticamente superiore, ma anche più salutare per il corpo e per l’anima:
Rispetto per gli animali utili all’uomo: “Che il bove ari e, se muore, sia solo per colpa della vecchiaia. Che la pecora ci fornisca le armi per difenderci dalle folate gelide di Borea. Che le caprette ci offrano le poppe gonfie per farsele strizzare.”
Critica alla caccia e agli inganni: “Via le reti e i cappi e i lacci e tutte le altre trappole! Non ingannate gli uccelli con rametti spalmati di vischio, non deviate perfidamente i cervi con spauracchi di piume, non nascondete ami ad uncino dentro esche ingannatrici.”
Pitagora sottolinea l’importanza di scegliere alimenti che non comportino sofferenza, favorendo la pace e il rispetto per tutte le forme di vita.
Pitagora non si limita a criticare il consumo di carne, ma offre anche una visione più ampia della natura e dell’universo. Egli spiega come l’anima sia immortale e trasmigri da un corpo all’altro, un principio che rafforza il rispetto per tutti gli esseri viventi:
Questa convinzione lo porta a considerare ogni atto di violenza verso gli animali come un’offesa all’anima stessa, che potrebbe un giorno risiedere in un altro essere umano.
Le parole di Pitagora sono un invito a riflettere sulle nostre scelte alimentari e sul nostro rapporto con la natura. La sua filosofia ci ricorda che è possibile vivere in armonia con il mondo, rispettando gli animali e adottando uno stile di vita etico e sostenibile. In un’epoca in cui le questioni ambientali e morali sono sempre più urgenti, il messaggio di Pitagora risuona come una guida preziosa per costruire un futuro più giusto e pacifico.
Una delle principali critiche mosse dalla filosofia pitagorica riguarda l’idea che l’uomo primitivo fosse intrinsecamente carnivoro. La narrativa moderna sostiene che la caccia e il consumo di carne abbiano rappresentato una svolta evolutiva, favorendo lo sviluppo del cervello e delle capacità sociali. Questa teoria, tuttavia, si basa su una lettura selettiva e distorta delle evidenze archeologiche.
Le prime società umane, come dimostrano numerosi studi antropologici, si sostentavano principalmente con alimenti vegetali. Frutti, semi, radici e cereali selvatici costituivano la base della dieta. La caccia, quando praticata, era un’attività rara e spesso opportunistica. La carne non era un alimento regolare, ma un’aggiunta occasionale legata a circostanze straordinarie, come climi estremi o carestie.
Pitagora descrive l’età dell’oro come un periodo di equilibrio, in cui gli uomini vivevano in armonia con gli animali e si nutrivano esclusivamente dei doni della terra. Questa visione contrasta nettamente con l’immagine moderna di un’umanità primitiva dominata dalla violenza e dalla caccia. La carne, secondo Pitagora, non solo non era necessaria, ma era dannosa per l’anima e per l’equilibrio cosmico.
A partire dagli anni ’50, le riforme scolastiche e la divulgazione scientifica hanno sistematicamente promosso l’immagine di un uomo primitivo carnivoro, presentandola come un fatto storico indiscutibile. Questa narrativa è stata rafforzata da documentari, libri di testo e programmi educativi che hanno ignorato o minimizzato le prove a favore di una dieta prevalentemente vegetale nelle prime società umane.
Dietro questa distorsione storica si celano interessi economici e industriali. L’espansione dell’industria della carne, sostenuta da massicce campagne pubblicitarie, ha reso il consumo di carne un simbolo di progresso e benessere. Allo stesso tempo, ha contribuito a normalizzare pratiche di allevamento intensivo e sfruttamento degli animali, spesso nascondendo i costi ambientali ed etici associati a questo sistema.
Pitagora, con la sua filosofia, rappresenta una voce fuori dal coro, che ci invita a riconsiderare queste narrazioni. Egli ci ricorda che il rispetto per la vita e l’armonia con la natura non sono solo valori morali, ma principi fondamentali per una società sana e sostenibile.
Pitagora ci offre una visione del mondo in cui l’uomo non è un predatore, ma un custode della natura. La sua dieta vegetariana non è solo una scelta alimentare, ma un’espressione di un’etica profonda basata sul rispetto per tutte le forme di vita. Egli critica il consumo di carne non solo per le sue implicazioni morali, ma anche per le sue conseguenze sulla salute fisica e spirituale.
Il filosofo descrive con vive immagini l’assurdità di cibarsi di carne quando la terra offre abbondanza di cibi vegetali:
“Che delitto enorme, tra tanta abbondanza, è scegliere di masticare con denti crudeli povere carni piagate!”
Pitagora invita l’uomo a riscoprire il suo legame con la terra, abbandonando pratiche violente e distruttive a favore di una vita semplice e armoniosa.
La critica di Pitagora al consumo di carne non si limita alla sfera individuale, ma si estende alle conseguenze sociali e culturali di questa pratica. Egli osserva come la violenza contro gli animali predisponga gli uomini alla crudeltà verso i propri simili, generando conflitti e disarmonia.
Questa intuizione è sorprendentemente attuale in un mondo in cui l’allevamento intensivo non solo causa sofferenze indicibili agli animali, ma contribuisce anche a problemi globali come il cambiamento climatico, la deforestazione e le disuguaglianze sociali. La filosofia pitagorica ci offre una prospettiva preziosa per affrontare queste sfide, promuovendo un modello di vita più etico e sostenibile.
Pitagora ci invita a riscoprire una verità dimenticata: l’uomo non è nato per essere un predatore, ma un custode della terra. Le sue parole, sebbene antiche, risuonano con una forza sorprendente nel mondo moderno, offrendoci una guida per superare le crisi ecologiche, morali e sanitarie del nostro tempo.
Riconoscere che l’uomo antico non era un carnivoro per natura è un passo fondamentale per sfidare le narrazioni dominanti e costruire un futuro più giusto e armonioso. Seguendo l’insegnamento di Pitagora, possiamo ritrovare un equilibrio perduto e vivere in pace con tutte le creature viventi.
Qui c’era un uomo² che era nativo di Samo, ma fuggito da Samo, e dai padroni dell’isola, per odio verso la tirannide viveva in volontario esilio. Costui avvicinò gli dèi, per quanto sperduti nelle profondità del cielo, con la mente, e ciò che la natura sottraeva agli sguardi umani, lo colse con l’occhio dell’intelletto. E una volta sviscerato tutto col pensiero e con attento impegno, insegnava alla gente, e a schiere di discepoli muti e compresi d’ammirazione spiegava i principî dell’universo e le cause delle cose e che cos’è la natura: cos’è dio, come si forma la neve, quale è l’origine del fulmine, se è Giove oppure sono i venti a fare i tuoni squarciando le nubi, che cosa fa tremare la terra, secondo quali leggi viaggiano le stelle, e tutto ciò che è mistero.”
² Pitagora.
“tuoni squarciando le nubi, che cosa fa tremare la terra, secondo quali leggi viaggiano le stelle, e tutto ciò che è mistero.
E per primo denunciò come una vergogna che s’imbandissero animali sulle mense, e per primo schiuse la sua bocca dotta (ma non altrettanto creduta) per pronunciare un discorso così concepito:
«Astenetevi, o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d’uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose, e n’è di quelle che si possono rendere più buone e più tenere con la cottura. E nessuno vi proibisce il latte, e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni bene di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e sangue. La carne placano la fame le bestie, ma neppure tutte: il cavallo e le greggi e gli armenti vivono d’erba. Sono le bestie d’indole cattiva e selvatica, le tigri d’Armenia e i leoni iracondi e i lupi e gli orsi, a godere di cibi sanguinolenti. Ah, che delitto enorme è cacciare visceri nei visceri, ingrassare il corpo ingordo stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di un altro essere vivente! In mezzo a tutta l’abbondanza di prodotti della Terra, la migliore di tutte le madri, davvero non vi piace altro che masticare con dente crudele povere carni piagate, facendo il verso col muso ai Ciclopi? E solo distruggendo un altro potrete placare lo sfinimento di un ventre vorace e vizioso? Eppure quell’antica età alla quale abbiamo dato il nome di età dell’oro era felice dei frutti degli alberi, e delle erbe che spuntano dal suolo, e non si lordava la bocca di sangue. Allora gli uccelli battevano tranquilli le ali per l’aria e la lepre girellava senza paura in mezzo ai prati, e il pesce non si ritrovava, per la sua ingenuità, appeso all’amo. Tutto era senza insidie, senza nessun inganno da temere, pieno di pace. Ma poi uno sciagurato, chissà chi, invidioso del vitto dei leoni, cominciò a buttarsi nell’avida pancia di chi di carne, e aprì la via al delitto. All’inizio, credo, il ferro si macchiò e s’intiepidì di sangue di bestie feroci: e ci si poteva fermare lì: ammazzare esseri che cercano di uccidere noi non è, lo riconosco, un’empietà. Ma se bisognava ammazzarli, banchettarci no! Da lì lo scempio andò molto più oltre, e la prima vittima a meritarsi la morte fu, si ritiene, il maiale, perché”
“col tondo grugno disseppelliva i semi soffiando i raccolti sperati.
Perché morsicava le viti, il capro, si dice, cominciò ad essere immolato sugli altari di Bacco, per punizione. Sia il maiale che il capro si rovinarono per colpa loro. Ma che male avete fatto voi, pecore, placide bestie nate per far del bene all’uomo, che portate un nettare nelle poppe rigonfie, che ci donate la vostra lana e che se ne facciano morbide vesti, e che siate più utili vive che morte? Che male ha fatto il bue, anima che non conosce frode né inganno, innocuo, bonaccione, nato per sgobbare? Ingrato, indegno perfino del dono delle messi colui che ebbe il curvo aratro, colui che troncò con la scure quel collo spellato dalla fatica, grazie al quale tante volte aveva ripreparato il duro maggese e immagazzinato raccolti. E non ci si accontentò di commettere un simile delitto: si coinvolgono nel crimine perfino gli dèi, con l’idea che le divinità del cielo godrebbero dell’uccisione del laborioso giovenco. La vittima senza macchia, la più bella (guai essere troppo belli!), tutta adornata di bende e d’oro, è piazzata davanti all’altare e sente ignara recitate preghiere e si vede sistemare sulla fronte, tra le corna, i prodotti che essa stessa ha coltivato, e colpita tinge di sangue il coltello di cui forse ha intravisto il balenio nell’acqua limpida. Subito esaminano i visceri estratti dal suo petto ancora vivo e li scrutano per leggervi le intenzioni degli dèi. E voi (tanta è dunque nell’uomo la fame di cibi vietati) osate cibarvene, o stirpe mortale? Non fatelo, ve ne prego, ascoltate i miei avvertimenti, e se comunque vi mettete in bocca membra di buoi macellati, sappiate e abbiate coscienza che state mangiando i vostri lavoratori.
«E poiché è un dio a muovere le mie labbra, questo dio che muove le mie labbra io lo seguirò devotamente, e aprirò la mia bocca per predicare. Delfi e il cielo stesso, schiuderò le verità dell’augusta sapienza. Grandi cose canterò, non investigate dall’acume dei nostri predecessori e rimaste a lungo un mistero. Oh sì, spaziamo tra gli astri sublimi, oh sì, solleviamoci dalla terra, da questa sede inferiore, e lasciamoci trasportare dalla nuvola, posiamoci sulle spalle forti di Atlante e di lassù guardiamo in lontananza gli uomini che si agitano di qua e di là, bisognosi di essere illuminati dalla ragione, e così esortiamoli, loro che trepidano e temono la fine, spiegando gli ordinamenti del destino! O stirpe sbigottita dal terrore della morte gelida! Perché temete lo Stige, perché le tenebre e cose che sono nomi vani, materia da poeti, e i pericoli di…”
“un mondo immaginario? I corpi, una volta che li ha dissolti il rogo con la fiamma, o il tempo con la decomposizione, non soffrono più, credete a me. Le anime non muoiono e, sempre, lasciata una sede, sono accolte in un’altra dimora e lì abitano e continuano a vivere. Io stesso, ricordo, al tempo della guerra di Troia ero Euforbo, figlio di Panto, Euforbo che un giorno fu trafitto in pieno petto dalla pesante lancia del figlio minore di Atreo; e or non è molto ad Argo, città di Abante, ho riconosciuto nel tempio di Giunone lo scudo che il mio braccio sinistro all’epoca sorreggeva. Tutto si trasforma, nulla perisce. Lo spirito vaga e da lì viene qui e da qui va lì e s’infila in qualsiasi corpo, e dagli animali passa nei corpi umani e da noi negli animali, e mai si consuma. E come la cera duttile si plasma in figure nuove e non rimane com’era prima e non conserva le stesse forme, e tuttavia sempre cera è, così secondo la mia dottrina l’anima è sempre la stessa ma trasmigra in varie figure. Dunque, perché il dovuto rispetto non sia sopraffatto dall’ingordigia del ventre, evitate – questo è il mio insegnamento – di espellere con empio assassinio le anime altrui, sorelle delle vostre, e il sangue non si nutra di sangue.
«E poiché ormai mi sono slanciato su questo vasto mare e corro a vele spiegate col vento in poppa: in tutto il mondo non c’è cosa che duri. Tutto scorre, e ogni fenomeno ha forme erranti e mute. Anche il tempo fila via con moto incessante, non diversamente dal fiume; e infatti, come il fiume, neppure l’ora fuggente può fermarsi, bensì come l’onda è sospinta dall’onda e quella che arriva è premuta e insieme preme quella che l’ha preceduta, così gli attimi fuggono e insieme inseguono, e sono sempre nuovi: quello che è stato si perde, quello che non era diviene, ed è tutto un continuo rinnovarsi. Tu vedi come le notti, terminate il loro corso, trapassino nel giorno, e come questa luminosità radiosa succeda alla notte nera. E anche il colore del cielo non è lo stesso quando ogni cosa, stanca, è sprofondata nel sonno, e quando Lucifero esce fuori, splendente, con il bianco destriero; ed è ancora un altro quando la discendente di Pallante, che precorre il giorno, tinge il mondo prima di affidarlo al Sole. E anche il disco di questo dio, quando sorge all’orizzonte, rosseggia, al mattino, e rosseggia pure quando tramonta all’orizzonte; ma quando è al punto più alto, è candido, perché lì la natura dell’aria è migliore e lì non può essere raggiunto dalle esalazioni della terra.”
“lazioni della terra. E anche la forma della notturna Luna non può mai essere uguale, cioè la stessa, e sempre è oggi più piccola di domani, se è crescente, più grande, se è calante. E poi, non vedi che l’anno si snoda in quattro fasi diverse, a imitazione della nostra vita? A primavera è tenero e lattante, l’anno, proprio come se fosse un fanciullino: allora l’erba novella, ancora priva di vigore, è soffice e paffuta e incanta di speranze i contadini; allora tutto fiorisce e il pingue campo è un gioco di colori di fiori, e nelle fronde non c’è ancora forza. Dopo la primavera, l’anno, irrobustitosi, trapassa nell’estate e diviene un baldo giovane: non c’è infatti stagione più robusta; una più esuberante, più ardente, non c’è. E viene la volta dell’autunno, che perduto il fervore della giovinezza è maturo e mite, moderato, qualcosa di mezzo tra giovane e vecchio, e anche un po’ brizzolato sulle tempie. Infine, arriva con tremulo passo l’inverno, senile, raggrinzito, spoglio dei suoi capelli o, se un poco ne ha, canuto. Anche i nostri corpi si modificano continuamente, senza sosta, e domani non saremo più quello che siamo stati o che siamo. Passato è il tempo in cui, allo stato di semplice seme, primo germe di nuovo essere umano, alloggiavamo nel grembo materno. La natura intervenne con le sue mani sapienti: non volle che il corpo racchiuso nei visceri tesi della madre restasse soffocato, e da quella dimora lo fece uscire all’aria aperta. Venuto alla luce, il bambino alla maniera delle bestie, a quattro zampe; e a poco a poco, vacillando con le ginocchia non ancora ferme, riuscì a mettersi in piedi, aiutando i muscoli con qualche sostegno. Ed ecco che diventato vigoroso e svelto attraversa la fase della giovinezza, e quindi, passati anche gli anni della mezza età, si avvia al tramonto per il cammino declive della vecchiaia. Questa corrode alla base e smantella il vigore dell’età precedente: e Milone invecchiato piange, al vedere flaccidi e cadenti i propri bicipiti, bicipiti che un giorno per massa e solidità parevano quelli di Ercole. Piange anche la Tindaride¹, quando scorge nello specchio le rughe senili, e dentro di sé si domanda come abbiano potuto rapirla due volte². O Tempo divoratore, e tu, invidiosa Vecchiaia, voi tutto distruggete e a poco a poco consumate ogni cosa facendola morire, rosa dai denti dell’età, di morte lenta.
«Neppure le cose che noi chiamiamo elementi, neppure esse…”
“durano. E ora vi spiegherò (seguitemi attentamente) per quali vicende passino. L’universo eterno consta di quattro sostanze generatrici. Di queste, due sono pesanti, la terra e l’acqua, e il loro peso le trascina in basso; le altre due non hanno peso e, se nulla le tiene premute, tendono ad andare in alto: l’aria e, più puro dell’aria, il fuoco. Questi elementi sono spazialmente separati, e tuttavia ogni cosa è da essi che nasce, e in essi ritorna. Così la terra dissolvendosi si rarefa in liquida acqua, il liquido affinandosi se ne va in vapore e in aria, e l’aria dal canto suo, se liberata dal peso, balza di nuovo su, finissima com’è, risolvendosi in fuoco scintillante. Quindi si rifà il percorso inverso, lo stesso processo si ripete a ritroso. Il fuoco cioè, ispessendosi, trapassa in aria (l’aria è più densa), e questa in acqua, e l’acqua si ragguma divenendo terra. E anche la forma non dura, a nessuna cosa, e la natura, che tutto rinnova, ricava dalle figure altre figure. E nulla perisce nell’immenso universo, credete a me, ma ogni cosa cambia e assume un aspetto nuovo. E nascere noi chiamiamo cominciare ad essere una cosa che non si era, e morire cessare di essere la suddetta cosa. Anche se questo si trasferisce di là e quello di qua, il totale è sempre lo stesso. Sì, io credo che nulla conservi a lungo lo stesso aspetto. Così voi, età del mondo, siete arrivate dall’oro al ferro; così, tante volte anche i luoghi cambiano destino. Io ho visto essere mare quello che un giorno era terra fermissima, ho visto terre che prima erano mare, e lontano dal mare si disseppelliscono spesso conchiglie marine, e vecchie ancore sono state trovate in cima ai monti. E lo scorrere delle acque ha trasformato pianure in valli e le alluvioni hanno portato montagne in mare e zone prima paludose sono deserti di arida sabbia e zone che prima morivano di sete sono umide per lo stagnar di paludi. Qui la natura ha fatto spiccare nuove fonti, ma lì ne ha chiuse, e i tremori profondi della terra a volte smuovono e fanno balzar fuori fiumi, a volte li otturano e li fanno sparire. Così il Lico, inghiottito da una voragine del terreno, rispunta più lontano, rinascendo con un’altra sorgente. Così il grande Erasino a un certo punto è risucchiato dal suolo, scorre vorticoso sotterra, e poi torna fuori nella piana di Argo. E in Misia il Caìco, si dice, pentitosi della sorgente e delle sponde di un tempo, oggi segue un altro percorso. E l’Amenàno che trasporta sabbia, in Sicilia, a volte scorre, ma a volte, bloccatesi.”
“le fonti, si prosciuga. L’Anigro, prima si beveva, ma oggi riversa un’acqua che farai bene a non toccare, da quando i biformi Centauri – se non si deve negare ogni fiducia ai poeti – lavarono lì le ferite inferte loro dall’arco di Ercole, l’eroe armato di clava. E ancora: l’Ipani che nasce dai monti della Scizia non è forse guastato da sale amaro, mentre prima aveva acqua dolce? Antissa e Faro, e Tiro in Fenicia, un giorno erano circondate dai flutti: oggi, nessuna di esse è un’isola. I contadini che abitavano anticamente a Leucade, abitavano sul continente: oggi, tutt’intorno c’è mare. Anche Zancle, si dice, prima era attaccata all’Italia, finché il mare non portò via la fascia di congiunzione e, infilando il mezzo con le onde, scostò dai lati la terra. Se tu cercassi Elice e Buri, città dell’Acaia, le troveresti sott’acqua: ancor oggi i marinai sogliono mostrare le città sprofondate e le loro mura sommerse. Vicino a Trezène, città di Pitteo, c’è un tumulo, altissimo, senza neppure un albero, una volta pianura liscissima, oggi, appunto, tumulo: e questo perché – cosa che fa spavento a raccontarsi – la violenza selvaggia dei venti racchiusa in cieche caverne, volendo sfogarsi da qualche parte, dopo avere invano lottato per godere di maggiore libertà nel cielo, siccome in tutti quei sotterranei non c’era una sola fessura da cui i soffi potessero passare, gonfiò la terra, tendendola, come il fiato della bocca gonfia una vescica o un sacco fatto con pelle di capro bicorne. Quel posto è rimasto gonfiato ed ha l’aspetto di un’alta collina, e nel corso dei secoli si è indurito. Benché moltissimi esempi, sentiti raccontare o visti, mi vengano a mente, ne citerò soltanto qualcun altro. E che? Anche l’acqua non dà e non prende nuove figure? La tua corrente, Ammone ornato di corna, a mezzogiorno è gelida, mentre all’alba e al tramonto si riscalda. Gli Atamànti, si racconta, accendono la legna versandovi acqua sopra, quando il disco della luna si è ridotto al minimo. I Cicòni hanno un fiume che, se vi si beve, rende di sasso i visceri, e riveste di marmo le cose con cui viene a contatto. Il Crati e il Sibari che passa qua, vicino a questi campi, fanno i capelli simili all’ambra e all’oro. E, cosa ancora più stupefacente, vi sono acque capaci di trasformare non soltanto i corpi, ma perfino l’animo. Chi non ha sentito parlare della fonte Salmacide, che fa sdilinquire, e dei laghi d’Etiopia? Se uno vi si abbevera, o impazzisce o cade in un sonno di una profondità strabiliante. Chiunque si disseti alla”
“fonte di Clitore, rifugge dal vino e astemio apprezza soltanto l’acqua pura: o perché in quella fonte c’è un potere contrario al calore del vino, o perché, come racconta la gente del posto, il figlio di Amitaone, dopo avere con formule e con erbe sottratto alla pazzia le figlie di Preto, gettò lì gli ingredienti con cui aveva purgato le loro menti, e l’avversione per il vino rimase nelle onde. Di effetto opposto è il fiume che scorre nel paese dei Lincesti: chiunque ne mandi giù qualche sorsata un po’ abbondante, vacilla né più né meno come se avesse bevuto vino puro. In Arcadia c’è un lago (gli antichi lo chiamarono Feneo) la cui acqua è sospetta; temila di notte, quell’acqua: bevuta di notte fa male, di giorno si beve senza danno. Così laghi e fiumi possono avere i poteri più diversi. E ci fu un tempo che Ortigia navigava per il mare; oggi è ferma. La nave Argo temette le Simplègadi che si scontravano tra grandi schianti d’onde, mentre ora esse sono immobili e resistono ai venti. E l’Etna che butta fuoco dalle sue fornaci sulfuree non sarà sempre fiammeggiante, e infatti non è stato sempre fiammeggiante. Questo perché se la terra è animata e vive e in molti punti ha sfiatatoi che esalano fiamme, può ben mutare le vie da cui emette il suo fiato e, ogni volta che si muove, può chiudere delle caverne di qua e aprirne di là. Se, altra ipotesi, vi sono dei venti imprigionati nei profondi recessi della terra e questa s’infuoca per l’attrito quando il loro turbinio sbatacchia sassi contro sassi e materia contenente grumi di fuoco, detti recessi torneranno ad essere freddi, una volta che i venti si saranno placati. Se poi sono sostanze bituminose a incendiarsi, o lo zolfo giallo ad ardere con fili di fumo, è chiaro che quando la terra, consumate nel corso dei secoli queste energie, smetterà di dar cibo e alimenti grassi alle fiamme, la natura vorace, venendole a mancare il nutrimento, non reggerà alla fame e, lasciata a digiuno, lascerà a digiuno i fuochi.
«Si dice che a Pallène, nel paese degli Iperbòrei, la gente si ritrovi col corpo velato di leggere piume, se s’immerge nove volte nella palude di Tritone. Personalmente, io non ci credo. Si racconta che anche le donne della Scizia ottengano lo stesso risultato versandosi addosso un farmaco magico. Ma se già ti è invece credere alle cose provate, non vedi come qualsiasi cadavere, una volta decompostosi per il passar del tempo o per il calore che lo squaglia, si trasformi in tanti animaletti? Accoppa”
“dei bei tori e mettili in una fossa e (è cosa risaputa) dai visceri imputriditi nascono qua e là api raccoglitrici di polline, che alla maniera di coloro dai quali son generate amano la campagna e lavorano di buona lena e sgobbano per il futuro. Dal battagliero cavallo, se si sotterra, nasce il calabrone. Se al granchio amante del litorale strappi le curve chele, e poi lo ricopri di terra, dalla parte sepolta verrà fuori uno scorpione, che ti minaccerà con la coda adunca. E i bruchi campagnoli, che sogliono tessere fili bianchi fra le frasche, cambiano (cosa osservata dai contadini) la loro figura in quella di farfalloni funerei. Il fango racchiude semi che danno origine ai verdi ranocchi; esso li genera mozzi, senza piedi, poi dà loro delle zampe atte al nuoto e, perché siano atte anche a spiccare lunghi salti, la misura di quelle posteriori supera quella di quelle anteriori. E l’orsacchiotto appena partorito non è orsacchiotto ma carne a malapena viva; è la madre che leccandolo gli plasma le membra e lo riduce alla forma, sia pure tozza, che ha essa stessa. Non vedi come i piccoli delle api produttrici di miele, tappati da un tassello esagonale di cera, nascono come corpi senza arti e solo più tardi acquistano zampe e più tardi acquistano ali? L’uccello sacro a Giunone, che porta sulla coda un cielo stellato, e l’uccello che fa da armigero a Giove, e le colombe sacre alla dea di Citera, e tutte le stirpi degli uccelli: se uno non lo sapesse, come potrebbe immaginare che nascono dalla parte centrale dell’uovo? Secondo alcuni, quando andrebbe al sepolcro la spina dorsale si putrefatta, il midollo suo si trasformerebbe in serpente. Tutti questi corpi, comunque, traggono origine da altri. Unico a riseminarsi e rigenerarsi da sé è un uccello che gli Assiri chiamano “fenice”. Non di chicchi di grano né di erbe vive la fenice, ma di lacrime d’incenso e di succo d’amomo, e quando ha compiuto cinque secoli di vita, se ne va in cima a una tremula palma e con gli artigli e col suo becco incontaminato si costruisce un nido tra il fogliame. Appena ha steso sul fondo uno strato di cassia e di spighe di nardo delicato, di cannella sminuzzata e di mirra bionda, vi si adagia sopra e chiude la sua esistenza in mezzo ai profumi. Allora, si dice, dal corpo paterno rinasce una piccola fenice, la quale dovrà vivere altrettanti anni. Questa, quando l’età le ha dato le forze e può resistere alla fatica, libera i rami dell’alta pianta dal peso del nido, porta via il nido (culla sua e sepolcro del padre) devota-“
“mente, e giunta attraverso l’aria leggera alla città di Iperìone, lo depone davanti alla porta sacra del tempio di Iperìone. Ma se in questi fenomeni c’è qualcosa di strano, che stupisce, stupiamoci anche della iena, la quale alterna i ruoli e una volta è femmina e si fa montare dal maschio, un’altra volta è maschio. Come pure di quell’animale che si nutre di vento e d’aria e che, qualunque colore tocca, subito prende quel colore. L’India convertita da Bacco, dal dio che si adorna di pampini, gli donò delle linci: tutto ciò che esce dalla vescica delle linci, si racconta, si converte in pietre e si congela al contatto dell’aria. Allo stesso modo, nell’istante in cui tocca l’aria anche il corallo s’indurisce: prima, sott’acqua, era erba molle.
«Finirà il giorno e Febo si tufferà nelle profondità del mare con i suoi cavalli stanchi, prima che io riesca a elencare con la parola tutte le cose che assumono un nuovo aspetto. Così vediamo che le epoche cambiano e che là dei popoli diventano potenti, qua decadono. Così Troia fu grande per ricchezze e per uomini e poté donare tanto sangue per dieci anni: ora rasa al suolo non presenta che antiche rovine e, come uniche ricchezze, le tombe degli avi. Famosa fu Sparta, potente la grande Micene, e così pure la rocca di Cècrope, e quella di Anfìone. Sparta è un terreno che non vale un soldo; la superba Micene è caduta; Tebe, città di Edipo, all’infuori di un mito, che cos’è? e di Atene, città di Pandione, all’infuori del nome, cosa resta? E ora corre voce che sta sorgendo, fondata dai discendenti di Dàrdano, Roma, la quale in riva al Tevere che nasce dall’Appennino getta le fondamenta di una grandiosa potenza. Dunque anche Roma, crescendo, muta forma, e un giorno sarà la capitale del mondo immenso. Così, si dice, affermano gli indovini e gli oracoli; e a quel che mi ricordo, già Èleno figlio di Priàmo, quando la sorte di Troia vacillava, aveva detto a Ènea, che piangeva e cominciava a disperare: “Figlio di dea, se credi, come dovresti, alle cose che la mia mente prevede, Troia non finirà del tutto, perché tu ti salverai. Un varco si ti aprirà tra il ferro e il fuoco: partirai, e con te porterai via Pèrgamo vagando finché lontano dalla patria tu e Troia troverete una contrada più amica. Vedo anche che i nipoti dei Frigi devono fondare una città, così grande che un’altra non c’è, né mai ci sarà, né mai si vide nei tempi passati. Per lunghi secoli essa avrà dei capi che la renderanno”
“potente, ma a renderla padrona del mondo sarà uno della stirpe di Iulo. Dopo che la terra si sarà avvalsa di lui, di lui godranno le sedi celesti, ché al termine del suo cammino ci sarà il cielo”. Queste cose, ricordo bene, Èleno predisse ad Ènea, destinato a portare con sé gli dèi della sua stirpe, e perciò mi rallegro che crescano le mura di una gente alla quale appartieni, e che la vittoria dei Pelasgi sia tornata a vantaggio dei Frigi.
«Ma per non galoppare troppo dimenticando la meta, il cielo e tutto ciò che esiste sotto il cielo cambia di forme, e così la terra e tutto ciò che esiste sulla terra, e così anche noi, che siamo parte del mondo, poiché non siamo soltanto corpi ma anche anime svolazzanti e possiamo andare a dimorare dentro bestie selvatiche e nasconderci in corpi di animali domestici. Lasciamo tranquilli e intatti corpi che potrebbero ospitare anime di genitori o di fratelli o di persone a noi legate da qualche vincolo, o comunque di esseri umani, e non ingozziamoci di pietanze del tipo di quelle di Tieste! Che malvagia abitudine contrarre, come si prepara a versare sangue umano, lo sciagurato che scanna col ferro il vitello senza scomporsi ai suoi strazianti muggiti, o che ha il coraggio di sgozzare un capretto che manda vagiti come un bambino, o di cibarsi di un uccello che lui stesso ha imbeccato! Che ci vuole per giungere al delitto pieno? Da qui, dove si può arrivare? Che il bove ari e, se muore, sia solo per colpa della vecchiaia. Che la pecora ci fornisca le armi per difenderci dalle folate gelide di Borea. Che le caprette ci offrano le poppe gonfie per farsele strizzare. Via le reti e i cappi e i lacci e tutte le altre trappole! Non ingannate gli uccelli con rametti spalmati di vischio, non deviate perfidamente i cervi con spauracchi di piume, non nascondete ami ad uncino dentro esche ingannatrici. Sopprimete alcune bestie se proprio fanno del male; ma anche quelle, sopprimetele soltanto. Astenetevi dal mangiarvele, e portate alla bocca solo alimenti pacifici».
Fu, si racconta, indottrinato da questi e altri discorsi che Numa tornò in patria e accettò l’invito a prendere in mano le redini del popolo laziale. Felicemente sposato a una ninfa e guidato dalle Camene, insegnò sacri riti e convertì alle arti della pace una gente avvezza alla guerra feroce. Quando poi, vecchissimo, giunse al termine della sua vita e del suo regno e morì, le donne del Lazio e il popolo e gli anziani lo piansero
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